Dalla Birmania alla Cina, da Cuba alla Turchia, dagli Usa al Vietnam, sono molti i governi che tengono sotto controllo l’accesso al Web e i suoi contenuti. L’accusa di Reporter Senza Frontiere
L’ultima arriva dalla Birmania, oggi Myanmar. In un paese dove l’accesso a Internet è già pesantemente controllato - i cittadini devono chiedere al governo l’autorizzazione per acquistare un modem e comunicare le password di accesso alla posta elettronica - il ministero delle Poste ha ordinato alle imprese di rimuovere le connessioni digitali con le filiali all’estero. Chi non si adegua rischia fino a 15 anni di carcere.
Ma i tentativi di mettere la museruola alla rete non si limitano a paesi governati da regimi autoritari o a Stati di recente, e fragile, acquisizione democratica. Reporter Senza Frontiere, che ogni anno redige un rapporto sui “nemici di Internet” in giro per il mondo, stima che nel 2001 i paesi che hanno ostacolato in qualche maniera la circolazione delle informazioni sul web siano stati una sessantina. Tra questi, anche nazioni che appartengono a pieno titolo alle democrazie occidentali. Non c’è bisogno d’allontanarsi troppo, basta guardare dentro casa nostra. Dopo le polemiche seguite alla chiusura di Brigaterosse.it, qualche settimana fa la Guardia di Finanza ha sequestrato cinque siti Internet accusati di diffondere contenuti blasfemi dopo una denuncia apparsa sull’Osservatore Romano, il quotidiano della Santa Sede. Malgrado sia facile aggirare la censura – dalla cache di Google è ancora possibile accedere ai contenuti – si sono sollevate proteste da parte di associazioni come l’Aduc, utenti e consumatori, mentre il partito Radicale ha denunciato la Chiesa di papa Wojtyla accusandola di ingerenza negli affari italiani.
Negli Stati Uniti, dove la libertà d’informazione sul Web è tutelata dal primo emendamento della Costituzione, la destra repubblicana agita lo spauracchio della “contaminazione pornografica” per far adottare legge restrittive. Sempre negli Usa, sulla scia dell’emergenza terrorismo, è stata criticata la recente approvazione da parte della Camera dei Rappresentanti di una legge che prevede pene severissime (fino all’ergastolo) per i cracker. Il provvedimento, infatti, amplia i casi in cui un provider può fornire informazioni alla polizia, trasformando gli Isp, che pure si sono detti d’accordo, in una sorta di “spie” del governo americano.
Nella Spagna di Aznar è stata approvata una nuova legge sulla privacy che obbliga i provider a tenere traccia delle comunicazioni e delle operazioni compiute in rete dagli utenti e che consente alla polizia di chiudere i siti Internet senza l’intervento della magistratura. Anche qui i gruppi che si battono per le libertà digitali gridano alla censura, e stanno lavorando per trascinare la legge in tribunale con l’accusa di violare la Costituzione. In Grecia invece, stando a quanto riportato da The Register, a essere minacciata è l’attività degli Internet Cafè dopo che il governo di Atene ha adottato pene severe contro il gioco d’azzardo on line. Se qualche cliente fosse sorpreso a giocare sul suo computer, il titolare del locale rischierebbe anche l’arresto.
Quello che accade in Occidente, comunque, è niente di fronte alle aggressioni portate alla libertà della rete nel resto del mondo. Ecco una panoramica dei casi più eclatanti. Su tutti quello della Corea del Nord, che ha eliminato il problema alla radice dichiarando illegale qualsiasi forma di accesso al Web. Nella Cina Popolare, invece, negli ultimi mesi sono stati chiusi decine di migliaia di cybercafè in quella che è stata definita la più grande repressione delle attività in rete mai messa in atto. Ufficialmente Pechino vuole impedire la circolazione di materiale pornografico ma in realtà, dietro l’azione del regime c’è la volontà di bloccare la diffusione di materiali scomodi per il partito, come i documenti della setta Falun Gong, le dichiarazioni dei dissidenti cinesi e le informazioni sulle politiche democratiche nel mondo. Ancora più grave è il fatto che questo fenomeno, proteste degli attivisti a parte, passa nell’indifferenza dell’opinione pubblica. Anzi, pur di non perdere un mercato da un miliardo e passa di potenziali consumatori, l’azione del regime viene anche assecondata dalle imprese occidentali. Si spiega così la decisione presa pochi giorni fa da numerosi portali, tra cui Yahoo!, di impegnarsi a eliminare dalle loro pagine tutti quei contenuti che il partito comunista cinese giudica sovversivi.
Non molto diversa la situazione nel vicino Vietnam, dove le autorità sorvegliano accuratamente tutti i clienti dei cybercafè per impedire l’accesso a siti “politicamente e moralmente discutibili”. Anche qui la pornografia viene usata come grimaldello per impedire la diffusione di materiale di critica al governo proveniente dai dissidenti all’estero. Censura ufficiale da qualche mese anche in Turchia, un paese che da anni chiede senza successo di essere ammesso all’Unione Europea. Contro la sua volontà, lo scorso maggio il presidente Ahmet Necdet Sezer ha firmato una legge che, se non sarà cassata dalla Corte Costituzionale, obbligherà chiunque decida di aprire un sito Internet a chiedere l’autorizzazione e spedire copia dei contenuti al governo. Inoltre, in qualsiasi momento un giudice potrà chiedere ai responsabili di un sito ogni singolo aggiornamento delle pagine.
Da Ankara al Cairo la musica non cambia. Anche in Egitto, infatti, il controllo delle opinioni ha conseguenze pesanti sulla libertà, come dimostra la condanna a un anno di carcere inflitta al figlio del poeta Naguib Soror. La colpa? Aver pubblicato su un sito un poema politico scritto dal padre negli anni Settanta. In Arabia Saudita la censura in rete è volta più a limitare le libertà personali che quella d’espressione. Secondo un’indagine della Harvard Law School, Ryad ha bloccato oltre duemila siti, la maggior parte dei quali riguardano la religione, il sesso, le droghe, le donne, la salute e la cultura popolare americana. Ancora più dura la censura nei vicini Emirati Arabi, dove il governo provvede a filtrare completamente tutto il traffico Internet in entrata.
A Cuba, invece, vige una specie di regime di apartheid informatico. Mentre il popolo di Fidel può solamente collegarsi a una rete Intranet dove visitare siti approvati dal governo, i turisti possono navigare nella rete mondiale nei cybercaffè al costo di cinque dollari l’ora. Nell’ex Unione Sovietica, ora Federazione Russa, lo scorso giugno Vladimir Putin ha chiesto alla Duma l’approvazione di una legge che impone nuove e più severe misure di sicurezza per le attività online. Il pretesto è quello di respingere le aggressioni telematiche di gruppi estremisti, nazisti o antireligiosi ma l’obiettivo, secondo gli osservatori, è quello di consentire al ministero di giustizia, a quello della stampa o a qualsiasi organizzazione statale di chiudere qualsiasi attività su Internet ritenuta estremista, anche senza un mandato della magistratura.
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